È ben noto che l’Unione Europea, come la chiamiamo oggi, ha mosso i suoi primi passi discutendo di questioni energetiche. È l’agosto del 1951 quando nasce la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio per l’accordo tra i 6 Paesi che nel 1957 diedero vita alla Comunità Economica Europea e contestualmente, alla Comunità Europea per l’Energia Atomica (Euratom).
Garantirsi la sicurezza energetica (e, per quanto riguarda l’acciaio, sottoporre a controllo congiunto un’industria strategica per limitare i rischi bellici) fu la molla principale che spinse Germania, Francia, Italia e Benelux a stipulare quegli accordi, tuttavia, le questioni strettamente ambientali – considerando anche i tempi – non ebbero alcun ruolo diretto. Solo nei decenni successivi, molti Paesi iniziarono ad avere politiche ambientali come dimostra il fatto che nei primi anni Settanta fecero la loro comparsa i Ministri e i Ministeri per l’ambiente.
In quegli stessi anni l’allora Comunità Economica Europea prese a emanare norme in campo ambientale, con il limitato scopo di fare in modo che gli Stati più deboli adottassero le politiche di quelli più forti.
Allorché si manifestarono problemi ambientali nuovi e non locali – come le piogge acide o il buco nell’ozono cosicché la CEE iniziò a produrre, in un contesto piuttosto conflittuale, norme proprie e, in breve tempo, le sue competenze in campo ambientale si imposero a quelle degli Stati membri.
La data di ingresso ufficiale delle politiche ambientali nell’agenda europea può essere fissata al 1973, quando venne presentato il primo Environmental Action Programme. Tuttavia, non sarebbe però corretto ritenere che gli interventi della CEE fossero espressione di una vera e propria politica ambientale, infatti, secondo quanto riporta Haigh1, nel 1985, all’avvio del suo primo mandato come presidente della Commissione, Jacques Delors, si rivolse a Carlo Ripa di Meana, nominato commissario per l’ambiente in questi termini: «Ti chiedo di darmi una politica ambientale. Al momento non vedo nessuna politica, ma solo una lista di direttive».
Nella seconda metà degli anni Ottanta, anche per effetto di favorevoli sviluppi internazionali (in particolare, quelli che portarono alla redazione del famoso Rapporto Bruntlandt) le politiche ambientali europee presero forma e struttura. Tuttavia, molti considerarono quei progressi troppo lenti.
Tra di essi vi era proprio Delors1 che nel discorso tenutosi a gennaio del 1989 al Parlamento Europeo, e che aveva per oggetto principale la costituzione dell’European Economic Area, diretta a definire le relazioni economiche tra gli Stati membri della Comunità e quelli della EFTA, disse: «Sull’ambiente stiamo facendo meno progressi di quelli che avrei desiderato ».
Questo ritardo fu da lui giudicato grave anche perché a suo avviso tra il mercato unico e l’ambiente non vi erano rapporti conflittuali e menzionò alcuni episodi (l’incidente nucleare di Chernobyl, l’inquinamento del Danubio2) come esempi dei costi rilevanti posti a carico della collettività dalla mancata attenzione all’ambiente.
La posta in gioco, a suo parere, era la relazione quotidiana tra l’uomo e l’ambiente, tra la società e la natura.
Nei decenni successivi la presenza delle istituzioni europee in campo ambientale si fece decisamente più estesa ed incisiva.

Nel già citato discorso del 1989, Delors, riferendosi all’Europa, si espresse così: «La storia del suo sviluppo è stata contrassegnata per secoli da uno speciale equilibrio tra la società e la natura. A partire dal Medio Evo, la popolazione europea si è mossa per popolare le zone rurali. Con una popolazione di 320 milioni di abitanti su un territorio di più di due milioni di chilometri quadrati, l’Europa è oggi un caso unico per l’equilibrio nella distribuzione della popolazione e per la progressività delle sue gerarchie urbane.
Non dovremmo dimenticare che questa peculiarità ha avuto effetti profondi sulla situazione della famiglia, sull’atteggiamento nei confronti delle organizzazioni economiche e sociali, sulla localizzazione e la struttura delle città e sulla società rurale. Questo, sia detto con rispetto, fa sì che l’Europa abbia una speciale personalità. Ed è questa la ragione per la quale dobbiamo preservarla »
Bene, in questo contesto storico pare che la centralizzazione delle politiche ambientali ne ha, almeno in astratto, accresciuto l’efficacia permettendo di dare risposte coordinate a problemi che mal si prestano ad essere affrontati con politiche nazionali e di norma, divergenti, purtroppo.
L’Europa, inoltre, ha prodotto o ha fatto propri importanti principi sui quali fondare le politiche ambientali, mi riferisco al Principio di Precauzione e al Principio secondo cui “chi inquina paga”1 (Polluters pay).
In base al primo, in mancanza di certezza sull’assenza di danni gravi (anche all’ambiente) occorre astenersi dallo sperimentare; il secondo stabilisce invece, che bisogna sanzionare i comportamenti dannosi per l’ambiente, evitando quindi sia la semplice tolleranza, sia l’interventismo che consiste nel premiare (ad esempio con sussidi) comportamenti maggiormente attenti nei confronti dell’ambiente.
Il principio «chi inquina paga» è un principio semplice basato sul buon senso: chi inquina, che potrebbe essere il responsabile o l’attività che causa l’inquinamento, deve pagare per rimediare al torto. Ciò potrebbe implicare la bonifica dell’area inquinata o la copertura dei costi sanitari delle persone colpite.
Naturalmente in una situazione di inquinamento si dovrà individuare il nesso causale tra le attività dei soggetti obbligati a produrre senza inquinare e i pregiudizi ambientali riscontrati.