Le politiche, quelle ambientali, quelle economiche e quelle sociali, devono camminare assieme nel solco della sostenibilità. Una politica ambientale improntata al concetto di sostenibilità non significa necessariamente una crescita economica, cioè un aumento della produzione e del consumo.
Per esempio parlando di mobilità territoriale si può affermare che una politica sostenibile della mobilità è quella che punta alla massimizzazione dell’efficienza del trasporto collettivo, in una visione che tenga conto della soddisfazione delle esigenze di mobilità dell’intera popolazione (con l’effetto di disincentivare la produzione, e non solo l’uso di auto private), e non quella volta all’utilizzo delle benzine verdi o delle marmitte catalitiche, che, al contrario, incentiva la produzione e la vendita di automobili private alimentando un concetto di mobilità non sostenibile.
Allo stesso modo, una politica sostenibile del territorio è quella che punta ad un consumo di suolo pari a zero (per non dire negativo) e non quella che si limita a programmare nuove edificazioni che, seppur dotate delle migliori performance in termini ambientali per limitare il loro impatto sull’ecosistema, consumano nuovo suolo agricolo e beni comuni deteriorando risorse non rinnovabili.
Una cosa è puntare sul progresso tecnologico per mitigare l’impatto ambientale dei sistemi di smaltimento dei rifiuti, altra cosa è riuscire a realizzare un processo produttivo che riesca a non generare proprio il rifiuto, perché per ogni bene è prevista una possibilità di riuso, secondo quanto postulato dai teorici dell’economia circolare.
La questione idrica, la capacità di gestione dei rifiuti, la lotta all’inquinamento, la difesa del suolo, la difesa della biodiversità, sono dunque questioni che non possono più essere affrontate con politiche settoriali che si fanno carico della riduzione degli effetti nocivi di singole pratiche o comportamenti, ma che richiedono un nuovo approccio globale e integrato.
Lo sviluppo sostenibile punta a realizzare un nuovo equilibrio più eguale di quello attuale, ciò che non può che essere declinato in un aumento del tenore di vita delle società povere e in una contestuale diminuzione di quello delle società ricche, che dovranno «ridurre ed eliminare i modi di produzione non sostenibile»
Una genuina attuazione del principio dello sviluppo sostenibile richiederebbe dunque di rivedere il sistema con cui siamo abituati a calcolare il PIL degli Stati, per fare diventare questo parametro un effettivo indicatore della sostenibilità ecologica di un paese piuttosto che della sua crescita, abbracciando non solo i dati quantitativi relativi alla produzione, ma anche gli effetti sociali e ambientali delle politiche.
È chiaro che si tratta di una vera e propria rivoluzione, innanzitutto culturale: il principio dello sviluppo sostenibile, dunque, determina il passaggio da un’etica antropocentrica ad una ecocentrica in cui all’uomo compete «la gestione della madre terra in regime di amministrazione fiduciaria, a beneficio (anche) delle future generazioni».