E’ possibile usare una matita nelle prove scritte di un concorso pubblico?

L’uso di una matita personale del candidato ad un concorso pubblico che prevede prove scritte non può costituire ragione di esclusione.Nella specie l’esclusione era stata disposta in esecuzione della clausola del bando che inibiva l’ingresso nella sala concorso di ‘uno strumento idoneo alla memorizzazione di informazioni o alla trasmissione di dati.

I magistrati affermano che l’impiego di una matita da parte della candidata non sembra riconducibile alla introduzione nell’aula di ‘… uno strumento idoneo alla memorizzazione di informazioni o alla trasmissione di dati.

Ciò in quanto una matita sostanzia un oggetto idoneo unicamente a veicolare su un supporto cartaceo le cognizioni teoriche possedute da un candidato onde trasporle nel foglio messo a disposizione dalla commissione ai fini dello svolgimento della prova concorsuale ma è sostanzialmente privo, ontologicamente, anche della mera capacità di conservazione, archiviazione e memorizzazione di qualsivoglia dato di conoscenza.

In conseguenza, non è atto a trasferire al candidato che ne sia possessore al momento dell’esecuzione della prova d’esame né ad altri, cognizioni, dati, elementi teorici o pratici non previamente immagazzinati e conservati in essa, priva, in quanto tale, di alcuna capacità ricettiva e conservativa dei dati stessi, inattitudine derivante dalla intrinseca meramente meccanica e sostanziale (in senso etimologico) natura della matita, alla quale è estranea qualsivoglia capacità di archiviazione e susseguente riproduzione di informazioni, che solo un dispositivo informatico o elettronico può possedere.

La norma della lex specialis eretta dalla commissione a fondamento giuridico della comminata illegittima disposta esclusione, vale a dire l’art. 3, comma 6, d.m. n. 130 del 2017 (al pari dell’art. 1, comma 5, dell’allegato 5 al d.m. n. 859 del 2019) invero, interdice ai candidati di possedere e introdurre nelle aule d’esame, qualsiasi strumento idoneo alla memorizzazione di informazioni o alla trasmissione di dati, ma non anche un oggetto dotato di sola consistenza materiale, carente anche di ‘anima’ informatica, qual è una matita, costituita, com’è noto, da una ‘anima’ scrivente, che è una mina consistente in una miscela di polveri di grafite e di argilla, la cui quantità ne determina la durezza, inserita in un involucro di materiale legnoso o affine.

L’involucro, peraltro, è saldamente inglobato ovvero incorporato nella mina, che non è estraibile in modo da consentire la eventuale ipotetica sua sostituzione con materiale hardware atto alla memorizzazione di dati.

Ragion per cui è del tutto inconfigurabile che una matita possa contenere informazioni.

In astratto invece da prendere in considerazione quando viene usata una penna, che notoriamente è scomponibile in una cannuccia e nel supporto plastico esterno: il che astrattamente ne rende ipotizzabile l’impiego come veicolo di microcomponenti hardware o microchip atti all’immagazzinamento e allo storage di dati ed informazioni.

Questo spiega la ragione per la quale ai candidati ammessi a sostenere una qualsivoglia procedura concorsuale che preveda lo svolgimento di prove scritte, è vietato utilizzare penne da loro introdotte in aula e viene loro consegnata e messa a disposizione la penna fornita dalla commissione.

La valutazione dei titoli nei concorsi pubblici

I famigerati titoli di studio valutabili (con punteggio) posseduti dai partecipanti ai pubblici concorsi sono solo quelli già conseguiti e dichiarati in sede di presentazione delle domande.

Tanto è vero che è stato rigettato il ricorso di un soggetto che intendeva far valere, al fine dell’attribuzione del maggior punteggio, il conseguimento di titolo di studio superiore rispetto a quello richiesto per l’accesso, in data antecedente la conclusione del concorso, la valutazione dei titoli e la formazione della graduatoria provvisoria.

Così come i titoli richiesti per la partecipazione anche quelli che a diverso titolo si inseriscono nella procedura selettiva devono essere posseduti alla data di scadenza del termine previsto per la presentazione delle domande e restano irrilevanti quelli successivamente acquisiti.

Questo principio, oltre che conforme alla normativa vigente, è in linea con la giurisprudenza consolidata che ha sancito il suo fondamento nella necessità di fissare una data certa che scada in epoca antecedente all’avvio delle operazioni di controllo da parte dell’amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, sezione VI, 6 dicembre 2013, n. 5843).

Non si può operare distinzione tra requisiti di ammissione e titoli ulteriori, utili ai fini dell’assegnazione dei punteggi, dal momento che, da un lato, tale distinzione non è rinvenibile nella normativa vigente (nella fattispecie, neppure nel bando di concorso) e, dall’altro canto, un diverso termine di rilevanza di questi ultimi titoli si porrebbe, comunque, in contrasto con il rispetto dei principi della par condicio dei candidati e con la perentorietà dei termini di scadenza per la presentazione delle domande.

Le dimissioni del lavoratore pubblico dipendente sono irrevocabili?

Nel pubblico impiego privatizzato le dimissioni del lavoratore costituiscono atto unilaterale recettizio che produce l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro nel momento in cui viene a conoscenza del datore di lavoro ed indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle; quindi, per essere efficaci, le dimissioni non necessitano di alcun tipo di provvedimento datoriale di accettazione.

L’amministrazione non può in alcun modo rigettare le dimissioni, ma si deve limitare, esclusivamente, ad accertare che non sussistano impedimenti legali alla risoluzione del rapporto di lavoro.

L’unico accertamento da condurre è che la volontà manifestata dal lavoratore sia realmente univoca, incondizionata e genuina riguardo alla decisione di porre fine al rapporto di lavoro ragion per cui, l’eventuale successiva revoca delle dimissioni da parte del lavoratore non è idonea ad eliminare l’effetto risolutivo già prodottosi.

Tuttavia resta salva solo la possibilità, per le parti ed in applicazione del principio di libertà negoziale, di porre nel nulla consensualmente le dimissioni con la conseguente prosecuzione del rapporto di lavoro.

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