Con riferimento ai trattamenti di fine rapporto e di fine servizio dei dipendenti pubblici, è possibile identificare tre categorie:
• personale per il quale continua ad applicarsi il regime del trattamento di fine servizio antecedente alle nuove norme – più avanti richiamate – in materia di trattamento di fine rapporto per i pubblici dipendenti (per comodità espositiva tale personale sarà denominato, d’ora in avanti, “personale in TFS”);
• personale che si trovava nel regime di cui al punto precedente, ma che ha volontariamente optato, aderendo ai fondi di previdenza complementare negoziali, per il nuovo regime del TFR dei pubblici dipendenti (difatti, nell’attuale sistema l’adesione volontaria al fondo di previdenza implica il passaggio nuovo regime); d’ora in avanti, tale personale sarà denominato con l’espressione “personale optante”;
• infine, il personale cui si applica, dal momento dell’assunzione, il nuovo regime del TFR dei pubblici dipendenti: rientrano, in quest’ultima categoria tutti coloro che sono stati assunti a tempo indeterminato dopo il 31 dicembre 2000 ovvero gli assunti a tempo determinato con un rapporto di lavoro in corso o successivo al 30 maggio 2000 (per comodità, useremo l’espressione “personale in TFR pubblico”).
La problematica analizzata nella presente guida operativa riguarda solo le ultime due categorie, sebbene presenti collegamenti, come si vedrà tra breve, con le vicende che hanno interessato la prima. Infine, sempre in premessa, occorre evidenziare che il pagamento di tutti i trattamenti di fine servizio, compreso il nuovo TFR per i pubblici dipendenti, continua ad essere effettuato dall’ente previdenziale (oggi “INPS”) e ad essere finanziato mediante contributi versati dal datore di lavoro (anche per questo aspetto, sono fatte salve alcune eccezioni). Quindi, al di là delle differenze di regime applicato (TFS o TFR), il sistema di contribuzione ed erogazione dei trattamenti continua ad essere interamente gestito centralmente ed unitariamente dall’ente previdenziale, senza un rapporto sinallagmatico tra contributi e prestazioni (come avviene nel caso di TFR accantonato).
Questo è uno degli aspetti che maggiormente differenzia il sistema vigente per i pubblici dipendenti da quello previsto nel settore privato.
Come si è giunti all’assetto attuale
E’ utile ricordare, seppure a grandi linee, la successione delle fasi attraverso le quali si è giunti all’assetto descritto in premessa.
Periodo antecedente all’introduzione del TFR e della previdenza complementare per i pubblici dipendenti
Tutti i dipendenti pubblici si trovavano in regime di TFS, con una regolazione interamente riservata alle norme di legge. La misura della contribuzione era fissata, nel settore statale, in misura pari al 9,60%, sull’80% della retribuzione lorda individuata come “utile” dalle disposizioni regolanti la materia. Era, inoltre, prevista una rivalsa a carico del dipendente, in misura pari al 2,50%. Per i dipendenti di regioni, enti locali e servizio sanitario il contributo complessivo era invece pari al 6,10% sul medesimo 80% delle voci utili e con analoga rivalsa a carico del dipendente in misura pari al 2,50%.
Periodo successivo all’introduzione del TFR e della previdenza complementare per i pubblici dipendenti
Questa fase prende l’avvio, a seguito della riforma delle pensioni, nota come “Riforma Dini” (legge n. 335/1995), nella quale si prevedeva il passaggio a TFR per tutti i dipendenti pubblici (art. 2, commi 5 -8).
Tuttavia, il passaggio dal regime di TFS al nuovo regime di TFR non è avvenuto nei termini previsti dall’art. 2 della legge n. 335/1995 (1° gennaio 1996), a causa della complessità dell’operazione, effettuata, tra l’altro, in un contesto di finanza pubblica non favorevole. L’art. 59, comma 56, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, per contemperare le resistenze all’abbandono del TFS e favorire l’avvio della previdenza complementare, istituì la facoltà della cosiddetta “opzione”, vale a dire della possibilità di trasformare il trattamento di fine servizio in trattamento di fine rapporto all’atto dell’adesione alla previdenza complementare. Con la previsione dell’opzione, si è superata l’originaria impostazione dell’automatico passaggio al TFR. Aran Pag. 4 Il via alla concreta attuazione della transizione TFS/TFR, con il nuovo meccanismo, è avvenuto con l’art. 26, comma 19, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 che, richiamando i principi e le indicazioni contenuti nell’art. 2 della legge n. 335/1995, ha rinviato alla contrattazione collettiva nazionale la definizione di un quadro regolativo generale per l’istituzione dei fondi pensione e per l’introduzione del TFR, con conseguente adeguamento della struttura retributiva e contributiva.
Tale regolazione avrebbe dovuto tuttavia assicurare l’invarianza della retribuzione complessiva netta e di quella utile ai fini previdenziali. Il vincolo dell’invarianza retributiva è sancito nella richiamata normativa, quale principio cardine del passaggio dal vecchio al nuovo regime, anche per evidenti ragioni di tenuta complessiva del sistema.
A seguito di tale normativa, l’accordo quadro Aran – Confederazioni sindacali del 29 luglio 1999 ha regolato il passaggio dal precedente regime di TFS al nuovo regime di TFR per i dipendenti pubblici contrattualizzati. I contenuti di tale accordo sono stati recepiti dal DPCM 20 dicembre 1999. L’accordo quadro è tuttora vigente ed i suoi contenuti sono stati sottoscritti dalla quasi totalità delle confederazioni sindacali rappresentative del periodo.
Come è stato regolato il passaggio dal regime TFS al regime TFR dei dipendenti pubblici contrattualizzati
Il passaggio dal regime del TFS al regime del TFR per i dipendenti pubblici contrattualizzati è disciplinato dall’art. 6 dell’accordo quadro 29 luglio 1999 (recepito nell’art. 1 del DPCM), rubricato “effetti sulla retribuzione del passaggio a TFR”, che ha regolato il passaggio dal regime del TFS al regime del TFR. Tale articolo dà anche concreta attuazione al principio dell’invarianza, più sopra ricordato, previsto dall’art. 26, comma 19, della legge n. 448/1998.
Esso sancisce infatti che il passaggio al TFR di tutti i dipendenti pubblici (con effetti, dunque, sia sul “personale optante” che sul “personale in TFR pubblico”), deve realizzarsi ad invarianza (tra prima e dopo):
• della retribuzione netta;
• dell’imponibile fiscale;
• dell’imponibile previdenziale.
Per conseguire tale effetto, il citato art. 6 ha previsto, per tutto il personale in regime di TFR ( “optanti” e “personale assunto in regime di TFR pubblico”):
• la soppressione del contributo previdenziale obbligatorio del 2,50%, previsto dalle norme in materia di TFS, precedentemente posto a carico del dipendente;
• la sterilizzazione di ogni effetto ai fini fiscali della eliminazione del contributo a carico del dipendente;
• la riduzione della retribuzione lorda in misura pari all’ammontare del contributo soppresso, al fine di garantire l’invarianza della retribuzione netta; • il recupero “figurativo” in misura pari alla precedente riduzione (2,50%), al fine di garantire l’invarianza ai fini previdenziali ed ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto;
• la conferma: i) per i dipendenti delle amministrazioni statali, di un contributo complessivo del 9,60% sull’80% delle voci utili, posto però interamente a carico del datore di lavoro e pari alla somma del 7,10% (quota a carico del datore nel precedente regime) e del 2,50% (quota a carico del lavoratore nel precedente regime); ii) per i dipendenti delle regioni, degli enti locali e del servizio sanitario nazionale, di un contributo complessivo de 6,10% sull’80% delle voci utili, anch’esso interamente a carico del datore di lavoro e pari alla somma del 3,60% (quota di contributo a carico del datore nel precedente regime) e del 2,50% (quota di contributo a carico del lavoratore nel precedente regime); tutto ciò al fine di garantire l’invarianza del complessivo flusso finanziario.
Attraverso questo meccanismo, il legislatore in primis e successivamente le parti contrattuali che hanno sottoscritto l’accordo quadro del 29 luglio 1999, hanno definito un percorso di passaggio graduale al TFR in base al quale:
• il finanziamento e l’erogazione del TFR sono assicurati dall’istituto previdenziale attraverso le stesse gestioni competenti in materia di TFS (in ossequio a quanto previsto dall’art. 2, comma 8, della legge n. 335/1995); • si assicura la parità di retribuzione netta tra personale in TFS, personale optante e personale in TFR;
• si garantisce la continuità di gettito alle gestioni del TFS/TFR dell’istituto previdenziale e la tenuta finanziaria complessiva dell’intero sistema.
Il passaggio al TFR per i dipendenti pubblici è avvenuto pertanto attraverso:
• un meccanismo di adeguamento retributivo e contributivo definito in sede di contrattazione collettiva nazionale, teso a garantire l’invarianza della retribuzione netta e dei flussi finanziari complessivi;
• la previsione di una prestazione con natura, finalità modalità di calcolo ed attribuzione derivabili dall’art. 2120, ma “innestata” su un complesso di regole gestionali ed operative tipiche dei TFS: dunque, con struttura e caratteristiche gestionali affatto diverse dal TFR dei lavoratori del settore privato.
Un passaggio integrale ed immediato dal TFS al TFR non sarebbe stato (e continua tuttora a non essere) possibile, poiché presenta profili di problematicità, in molti aspetti analoghi a quelli relativi alla transizione da un sistema pensionistico basato sulla ripartizione ad uno basato sulla capitalizzazione: occorrerebbero infatti risorse aggiuntive in misura tale da compensare il mancato afflusso contributivo al sistema a ripartizione generato dalla diversa destinazione degli accantonamenti di quei lavoratori i quali, inseriti nel sistema a capitalizzazione, vedono destinati non più al pagamento delle prestazioni correnti ma a conti individuali (il TFR gestito dal datore di lavoro), che daranno luogo alla prestazione finale.
La soluzione individuata ha, invece, consentito di rinviare e distribuire nel tempo gli oneri di questa operazione, senza peggiorare nel breve i saldi di finanza pubblica oltreché di evitare una pericolosa interruzione/riduzione dei flussi di finanziamento delle gestioni delle prestazioni di fine servizio amministrate dall’Istituto previdenziale.
Contenziosi determinatesi a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n.223 del 2012
Il sistema fin qui descritto – basato sui principi della “gradualità” della transizione da TFS a TFR e della attenuazione/limitazione degli effetti del passaggio da un sistema a ripartizione ad un sistema a capitalizzazione – ha esplicato i suoi effetti per più di un decennio, senza particolari problemi. Negli ultimi anni esso ha tuttavia dato luogo ad una serie di contenziosi giudiziari, soprattutto all’indomani di una nota sentenza della Corte Costituzionale (la n. Aran Pag. 7 223 del 2012), che ha dichiarato incostituzionali diverse norme contenute nel D.L. n. 78/20101 . Per ciò che qui interessa, ci si soffermerà in particolare sulla parte di tale sentenza che ha dichiarato la incostituzionalità dell’articolo 12, comma 10. Limitatamente a questa parte, si precisa che essa è una sentenza di tipo “additivo”2 .
La norma prevedeva: “Con effetto sulle anzianità contributive maturate a decorrere dal 1 gennaio 2011, per i lavoratori alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, per i quali il computo dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, in riferimento alle predette anzianità contributive non è già regolato in base a quanto previsto dall’articolo 2120 del codice civile in materia di trattamento di fine rapporto, il computo dei predetti trattamenti di fine servizio si effettua secondo le regole di cui al citato articolo 2120 del codice civile, con applicazione dell’aliquota del 6,91 per cento”.
La norma stabiliva, con riferimento al personale che si trovava in regime TFS, una nuova modalità di computo della prestazione fine servizio in due quote: la prima, relativa alle anzianità maturate fini al 31 dicembre 2010, in base alla regole previgenti in materia di TFS; la seconda, relativa alle anzianità maturate dal 1° gennaio 2011 in base alle regole di calcolo del TFR. In particolare nel ricorso presentato si esponeva che la “estensione del regime di cui all’art. 2120 cod. civ. (ai fini del computo dei trattamenti di fine servizio) sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1º gennaio 2011, con applicazione dell’aliquota del 6,91%, avrebbe dovuto comportare il venire meno della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base contributiva della buonuscita, costituita dall’80% dello stipendio”.
È noto che l’allora INPDAP non ritenne avvenuto tale effetto abrogativo e pertanto non emanò alcuna disposizione che autorizzasse le amministrazioni a sospendere il prelievo da riversare nelle casse dell’ente previdenziale, considerando le modifiche introdotte dalla norma non un’estensione generalizzata del TFR ai dipendenti pubblici in regime di TFS, ma una modifica della sola modalità di computo di questa prestazione, in relazione alle anzianità utili maturate dal 20113 . A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n.223/2012, è intervenuto il legislatore, con l’art. 1, del D.L. 29 ottobre 2012, n. 185 abrogativo dell’art. 12, comma 10, del D.L. n. 78/2010, ripristinando la situazione antecedente.
Il D.L. n. 185 è decaduto per mancata conversione in legge, ma i suoi effetti sono stati fatti salvi all’art. 1, commi 98 e 99, della legge 24 dicembre 2012, n. 228. Conseguentemente, le trattenute del 2,5% di cui sopra non sono state restituite, mentre, come previsto dall’art. 1 del citato D.L. n. 185/2012, i TFS liquidati in base alla norma abrogata sono stati riliquidati d’ufficio, ai sensi della previgente disciplina. Nonostante il decreto legge n. 185/2012 e la legge n. 228/2012 abbiano fatto venir meno la materia del contendere per il personale in TFS, la sentenza della Corte costituzionale n. 223/2012 viene utilizzata a supporto di iniziative di contenzioso promosse dal personale in regime TFR (ivi compresi gli optanti), le quali fondano sulla sentenza stessa la pretesa di ottenere la cessazione della riduzione del 2,5% della retribuzione lorda. Si tratta, in effetti, della trasposizione di una decisione che riguarda la permanenza di un contributo previdenziale, ad un ambito – adeguamento retributivo definito in sede di contrattazione collettiva nazionale, richiesto dal passaggio da TFS a TFR – che non ha nulla a che vedere con le contribuzioni previdenziali e che, come detto, è finalizzato a garantire parità di trattamento retributivo tra tutti i lavoratori pubblici, qualunque sia il regime di prestazioni di fine lavoro di appartenenza.
Mentre molte sentenze (elencate successivamente) hanno ritenuta corretta l’applicazione del meccanismo di adeguamento retributivo e contributivo previsto dall’accordo quadro, alcuni di esse si sono invece pronunciate a favore dei ricorrenti (Tribunale di Roma sent. n. 13636 del 14/11/2013, Tribunale di Treviso sent. n. 104 del 11/7/2014, Tribunale di Roma n.306 del 14/1/2015, Tribunale di Padova n. 948 del 18/12/2015, Tribunale di Milano n.742 dell’11/3/2016). In questi casi, i giudici di merito hanno ritenuto applicabili le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale, ancorché essa sia riferita ad altra normativa, e hanno ritenuto illegittimo e comunque non applicabile ai diversi ricorrenti il DPCM del 20/12/1999, ancorché attuativo di una norma di legge e di un contratto collettivo nazionale. Nelle decisioni di alcuni di essi non si fa, peraltro, riferimento all’Accordo quadro del 29 luglio 1999 (pur molto chiaro nelle sue previsioni), firmato dalla quasi totalità delle Confederazioni sindacali al tempo rappresentative e nel quale era stato raggiunto un equilibrio complessivo, contemperante tutti gli interessi in gioco, collegato, tra l’altro, anche all’introduzione della previdenza complementare per tutti i pubblici dipendenti contrattualizzati. In alcune sentenze è stata accolta la tesi dei ricorrenti, in base alla quale la riduzione della retribuzione lorda comporterebbe anche un abbattimento di pari importo dell’accantonamento annuo di TFR.
Si tratta di una tesi che non trova riscontro nel quadro normativo di riferimento perché, come evidenziato, le disposizioni qui all’esame chiariscono in modo inequivocabile che le quote di accantonamento annuale di TFR, contabilizzate per il calcolo finale della prestazione, sono determinate applicando l’aliquota del 6,91% in vigore per i dipendenti privati, sulla base di quanto previsto dall’articolo 4 dell’accordo quadro del 29 luglio 1999 (si veda, in particolare, l’articolo 1, comma 6, del Dpcm 20 dicembre 1999). Inoltre, la riduzione operata sulla retribuzione lorda non incide in alcun modo sulla base di calcolo considerata ai fini del calcolo della prestazione: l’art. 6, comma 2 prevede infatti un recupero figurativo “in misura pari alla riduzione attraverso un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e dell’applicazione delle norme sul TFR”.
In altri casi, l’accoglimento delle tesi dei ricorrenti è basata anche sulla considerazione che il TFS sia più vantaggioso rispetto al TFR, circostanza che, secondo i ricorrenti, giustificherebbe un trattamento retributivo più sfavorevole per i lavoratori in regime TFS rispetto a quelli in regime TFR, secondo una logica tipicamente “compensativa”. Anche questa tesi non convince. Il TFS risulta più vantaggioso rispetto al TFR in caso di carriere crescenti, che fanno registrare significativi incrementi retributivi nel tratto finale. In caso di carriere piatte, con traiettorie retributive in linea o al di sotto dell’inflazione (come è avvenuto negli ultimi 7 anni), il TFR ha invece buone probabilità di superare il TFS: difatti, in tale eventualità, il TFS cresce soprattutto per effetto delle anzianità utili e meno per la base di calcolo; viceversa, il TFR cresce di un tasso superiore all’inflazione (se bassa) e, peraltro, su base composta. Occorre, peraltro, ricordare che la base utile ai fini TFS è considerata all’80% del valore delle voci che la compongono, mentre la base TFR è considerata al 100% e può includere ulteriori voci rispetto a quelle utili ai fini TFS. Al di là del presupposto non corretto, non convince neanche l’applicazione di un meccanismo di compensazione di presunti svantaggi sul piano delle prestazioni previdenziali e di fine lavoro, in violazione di un accordo collettivo quadro e su una materia per la quale è previsto un espresso rinvio alla sede negoziale.
In ogni caso, sembra non emergere in quasi tutte le sentenze di merito citate una chiara percezione delle peculiarità del TFR dei pubblici dipendenti, rispetto a quello dei privati, giustificate dalla transizione graduale di un intero sistema dal previgente regime TFS al nuovo regime TFR e dalla necessità di governarne gli effetti, anche in termini di impatti sulla finanza pubblica.
La maggior parte delle sentenze sin qui intervenute hanno invece rigettato le tesi dei ricorrenti: si ricordano, tra le altre, Tribunale di Bologna n. 902 del 12 novembre 2013, Tribunale di Bologna n. 247 del 18 marzo 2014, Tribunale di Napoli del 5 novembre 2014, Tribunale di Milano n. 2084 del 4 agosto 2014, Tribunale di Bologna del 26 gennaio 2015, Tribunale di Napoli del 19 febbraio 2015, Tribunale di Bologna del 23 febbraio 2015, Tribunale di Lucca del 26 febbraio 2015, Tribunale di Bologna n. 184 del 2 aprile 2015, Tribunale di Napoli n. 3428 del 13 aprile 2015, Tribunale di Ravenna n. 215 del 27 ottobre 2015, Tribunale di Bologna n.498 del 19 luglio 2016, Tribunale di Velletri n. 1474 del 27 ottobre 2016. Anche una Corte superiore, la Corte d’Appello di Torino, con due successive sentenze, la 41/2016 e la 301/2016, ha ritenute non fondate le tesi prospettate dai ricorrenti, nel presupposto della piena vigenza e conformità all’ordinamento delle disposizioni contrattuali.
Per completezza, deve essere segnalata anche una sentenza della Corte Costituzionale (la numero 244 del 2014), che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, rimessa con ordinanza dal Tribunale di Reggio Emilia il 5 marzo 2013 su analoga fattispecie.
Conclusioni
Le diversità tra TFR e TFS dei dipendenti pubblici e tra TFR dei dipendenti pubblici e TFR dei dipendenti del settore privato hanno trovato, nella Aran Pag. 11 giurisprudenza del giudice delle leggi, giustificazione nella discrezionalità del legislatore che può ben disporre discipline previdenziali e di fine servizio differenti nel rispetto del canone costituzionale della ragionevolezza. In particolare, un passaggio non immediato ed integrale dal TFS al TFR per tutti i dipendenti pubblici trova giustificazione nelle esigenze di gradualità nella razionalizzazione delle prestazioni di fine lavoro tesa ad una loro armonizzazione (e non ad una stretta equiparazione) con il TFR dei lavoratori privati. La Corte costituzionale, con la citata sentenza 244/2014, ha in proposito rilevato che ”il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi”.
Circa poi la diversità di regole in materia previdenziale e di indennità di fine lavoro, è consolidato l’orientamento della Consulta che la considera ammissibile in relazione ad alcune specificità che possono caratterizzare in modo contingente o strutturale il lavoro pubblico rispetto a quello privato. L’applicazione del TFR nel settore pubblico si è innestata su un complesso di disposizioni pre-esistenti e di regimi di calcolo dei trattamenti di fine lavoro con forti elementi di specialità.
Essa ha dunque richiesto specifiche norme di legge per “regolare” la transizione, le quali hanno, a loro volta, rinviato alla sede negoziale gli adeguamenti retributivi e contributivi conseguenti. La contrattazione collettiva sul punto ha, quindi, forti compiti regolativi assumendo, insieme alla legge speciale, un compito concorrente. Il legislatore ha preso atto di una situazione differente tra pubblico e privato, ha avvicinato le regolazioni previste nei due settori, ma ha mantenuto alcune distinzioni tra di essi. Riassumendo quanto sin d’ora enunciato, si può dunque affermare che:
1. il passaggio dal regime di TFS al regime di TFR nella pubblica amministrazione (non ancora completato poiché la maggior parte dei dipendenti pubblici permangono ancora nel TFS) sta avvenendo con gradualità ed ha richiesto alcune regolazioni specifiche (introdotte per lo più attraverso la contrattazione collettiva) volte a governare la transizione;
2. nella regolazione del passaggio è stato previsto, quale elemento centrale e irrinunciabile, l’invarianza della retribuzione complessiva netta e di quella utile ai fini previdenziali;
3. l’invarianza opera con riferimento: alla retribuzione netta; all’imponibile fiscale; all’imponibile previdenziale;
4. il meccanismo messo a punto dall’Accordo quadro del 29 luglio 1999 (recepito nel DPCM 20 dicembre 1999) per “regolare” il passaggio (art. 6 dell’AQN citato) garantisce (come esemplificato nella successiva tavola 1): i) l’invarianza della retribuzione netta e dell’imponibile fiscale, attraverso la riduzione della retribuzione lorda; ii) l’invarianza a fini previdenziali, nonché ai fini del calcolo della prestazione (TFR), attraverso il “recupero figurativo” della riduzione operata.